A tu per tu con il giornalista scordiense Nello Scavo
0Albert Camus scrisse che “il giornalista è lo storico dell’istante” e Nello Scavo, giornalista nato a Catania ma vissuto a Scordia, di storia ne ha scritta un bel pezzo.
“Un nonnulla sembrava. Fino a quando ti ritrovi con una pistola puntata alla tempia. Ma la mano che la impugna è la tua… pronto a pagare l’ultima rata”. Ecco come il cronista scordiense nato a Catania nel 1972 – esperto di cronaca nera, giudiziaria, criminalità organizzata e terrorismo nazionale – narra il racket dell’usura nel suo primo volume” Di Rata in Rata”.
La nostra redazione lo ha incontrato, grazie a Martina Pisasale che ha realizzato una lunga intervista con il giornalista che lavora per il quotidiano nazionale cattolico Avvenire e che vive a Como insieme alla moglie Stella, rigorosamente scordiense e al figlio Pietro.
Cronista della Scordia dei tempi buii, quegli anni ‘90 delle guerre di mafia, come hai scoperto l’amore per il giornalismo?
Non l’ho mai capito in realtà, diciamo che ho respirato comunicazione fin da piccolo. Quando ero bambino la mia maestra credeva che fossi autistico perché tenevo sempre il walkman – che allora era con l’auricolare mono – in realtà avevo bisogno di ascoltare la radio: il “gazzettino”.
Un po’ la colpa- merito potrebbe essere di mio cugino Lorenzo Gugliara, direttore del vostro sito che frequentava Radio Libera e mi portava in bicicletta con lui. Lì in un angoletto ammiravo quei dj artigianali, respirando quasi l’aria che si respirava a Radio Aut del celebre film i Cento Passi. Questa cosa mi è entrata nel sangue molto presto.
Come è iniziato il tuo viaggio nei meandri della cronaca?
Il mio viaggio è cominciato abbastanza presto, io ho unicamente desiderato fare il giornalista ma non l’ho mai confidato a nessuno e nemmeno a me stesso per molto tempo.
Era per me una professione lontana, inarrivabile, non la ritenevo alla mia portata per cui coltivavo l’interesse ma lo esplicavo in altre attività culturali, politiche, dell’Azione Cattolica. Il massimo a cui io potevo aspirare era il giornale della parrocchia o il giornalino scolastico.
Ho mosso i primi passi grazie ad un’iniziativa del quotidiano La Sicilia che raccoglieva articoli dalle scuole. Avevo 16 anni e proposi un articolo, lo scrissi ma rimase nel cassetto, non ebbi mai il coraggio di inviarlo.
Tutto è cominciato con il “Crivu”, in dialetto il setaccio del grano, giornalino di parrocchia che mi ha dato la forza di partire.
Il primo pezzo pubblicato su una reale testata registrata fu per il giornale romano “Presenze e Dialogo”, braccio armato dell’Azione Cattolica. Per loro scrissi un articolo “serio” su Mozart per poi arrivare in seconda uscita al mio primissimo dossier sulla mafia, nato in collaborazione con altri giornalisti.
I miei articoli furono visti e iniziai da lì la collaborazione con il quotidiano La Sicilia, andata avanti per 7-8 anni. Data indimenticabile il 21 marzo 1992, giorno in cui venne pubblicato il primo articolo, già allora sulla crisi agrumicola.
Venivo pagato all’inizio 7500 lire ad articolo che poi diverranno 10 mila lire con l’aumento, mi ammazzavo di lavoro ma quel periodo è stata per me una scuola straordinaria. Mi sono confrontato con molti temi e con la difficoltà più grande di tutte: scrivere nel tuo paese di vicende che accadono nel tuo paese e di persone che molto spesso sono tuoi amici e parenti, e di doverne scrivere male. Erano gli anni in cui partiva Mani Pulite, era scoppiata a Scordia una guerra di mafia che fece diversi morti.
Il tuo primo pezzo di cronaca nera?
Ero sulla strada per Lentini ebbi lì il primo rapporto con i carabinieri. Ero da poco maggiorenne e i miei amici che erano a conoscenza dell’accaduto- era stato ucciso un ragazzo di Lentini residente a Scordia- mi caricarono in macchina e mi portarono sul luogo. Intorno era buio pesto saranno state le undici della sera, mi presentai alle forze armate come corrispondente della Sicilia ma la loro risposta fu “noi non corrispondiamo con nessuno” allontanandomi in malo modo dall’area delimitata. Li capii che il mestiere sarebbe stato complicato!
Quando la svolta?
Questa realtà cominciava a starmi stretta ma aspettavo che il direttore, come nei film americani, mi dicesse tu domani sei assunto. Questo non è mai successo, ma è stata una grande palestra e mi sono occupato di tutto finchè la pressione anche mafiosa è divenuta pesante. Il boss mandò in casa mia sua moglie, gesto che un colonnello dei carabinieri interpretò come un gesto estremo dicendo “se il rè manda la regina per fare un ambasciata il segnale è chiaro”, ma il giornale mi ha comunque sempre tutelato.
Erano forti anche le pressioni politiche, qualsiasi cosa io scrivessi era vista con la lente deformata di chi la pensava rivolta ad un determinato blocco politico -Se tu ti poni ad un lettore ma questo ha dei pregiudizi nei tuoi confronti è difficile smontarne le idee- Da qui ho poi collaborato con molti altri giornali per poi approdare alla redazione di Avvenire.
Quest’ amore per la cronaca nera e giudiziaria come si coniuga con la vita da giovane papà?
Non è amore per la cronaca nera ma è passione per il racconto, reportage e giornalismo d’inchiesta.
Dalle Bestie di Satana all’infermiera killer, alla strage di Erba la cronaca nera ti abitua a non accontentarti di quello che vedi, perché tante volte la verità non è quella che stai osservando. Questo l’ho imparato proprio a Scordia in quegli anni, io non credo nel giornalismo obiettivo ma in un giornalismo onesto. Il lettore deve sapere in che ottica sto guardando.
Il giornalismo fatto con passione non si coniuga con la vita familiare, forse mia moglie avrebbe una risposta più precisa, ma è certo che la famiglia ne esce davvero sacrificata.
Il tuo libro descrive un’ italia “strozzata” dal nord al sud dalla nuova arma bianca: l’usura. Racconti di “Dracula, cravattari, colletti bianchi e vittime”, storie di uomini che soccombono, come Cristian immobiliarista pugliese, e che reagiscono. Dal 2009 ad oggi cos’è cambiato?
Purtroppo è successo tutto ciò che noi abbiamo raccontato, la realtà ha anche superato le nostre verifiche di quel momento (2008-2009). E’ successo che la banche hanno alterato il sistema di credito, è successo che le imprese continuano a chiudere e siamo in uno stato di crisi permanente.
Lo scopo del libro era raccontare che la mafia si è trapiantata al nord non più di passaggio ma come fenomeno autoctono. Abbiamo scoperto che la camorra non solo si è strutturata in Brianza ma usa parte dei proventi leciti per finanziare delle guerriglie in Africa. Da ciò ne trae interesse perché destabilizzando quei territori – i governi impegnati a sedare le rivolte non controllano le miniere- l’organizzazione può acquistare diamanti a prezzi di favore rivendendoli nel mercato internazionale. Allo stesso tempo può inoltrare in maniera “indisturbata” rifiuti tossici e scorie.
Camorra e Ndrangheta hanno anche stretto accordi con emissari di Al Qaeda per il transito della droga in Africa. Pensare che le nostre mafie siano al centro di questi affari e che l’usura sia diventata un alimento di questo fenomeno è assurdo.
Il triangolo delle Bermuda del credito usuraio, che definisci al confine con la svizzera, ha oggi cambiato le sue radici? Il nuovo business delle mafie da 12,6 miliardi di euro come si è evoluto in corrispondenza della nostra crisi. Ci sono legami con il gioco d’azzardo?
Il meccanismo che noi abbiamo segnalato si è fortificato e lo confermano anche inchieste svizzere. La crisi spinge gli imprenditori a rivolgersi agli usurai che mettono in circolo denaro sporco riutilizzandolo in attività lecite (come per l’azienda Perego Strade). Il giro si conclude nelle casseforti svizzere per poi rientrare in Italia in forma lecita grazie allo scudo fiscale. La mafia con la lupara e la coppola non esiste più!
La politica si mescola sempre più al gioco d’azzardo, secondo stime recenti primo mercato per volume d’affari, quindi sempre più giocatori e “Bombardieri” (puntatore frequente e senza limiti) sfidano la dea bendata. Azzardopoli dopo tangentopoli quasi sono le regole del gioco, se di gioco si può parlare?
Lo scopo principale della legalizzazione del gioco d’azzardo era quello di sottrarre circuiti illegali alla criminalità e riversarli nel sistema legale, ma in realtà è accaduto esattamente il contrario come nel caso dei Clan Santa Paola e Lo Piccolo. Sono moltissime le attività apparentemente legali ma in realtà nelle mani della criminalità.
L’anno scorso sono stati spesi nel gioco circa 80 miliardi di euro, se consideriamo una manovra finanziaria media ( 4-8 miliardi) sarebbero 10 manovre.
Un inchiesta da pochissimo pubblicata da noi riguardava un sistema colossale di evasione fiscale. Ogni macchinetta da gioco in un bar è collegata non solo alla corrente ma anche al Centralone dei monopoli di stato.
In teoria al Ministero del Tesoro sanno quanto soldi entrano dentro ogni macchinetta quante vincite, perdite e a quanto ammonta l’incasso dei gestori. Per anni però i gestori hanno tenuto la macchinetta staccata dal cavo telefonico che la collega al monopolio. Grazie alla guardia di finanza si è stimata un’evasione per 98 miliardi di euro, i concessionari sono stati condannati al pagamento di soli due miliardi di euro ed hanno presentato ricorso per un eventuale sconto.
E’ certo che di questi 98 miliardi una buona percentuale è gestita dalle cosche, possiamo quindi immaginare quanto siamo riusciti a rendere le loro finanze più solide grazie al gioco d’azzardo.
Una vita giornalistica votata alla legalità come si evince dalla tua partecipazione al recentissimo convegno del 28 febbraio a Corsico ”Legalità e comunicazione”, come educare i giovani alla legalità attraverso i media? La giustizia è conveniente davvero per tutti?
La giustizia è conveniente per tutti in uno stato di diritto in cui una legge è uguale per tutti, ma se l’apparato giustizia non funziona è conveniente solo per i poco onesti. Al cittadino corretto e all’imprenditore conviene una magistratura che funziona, questa serve anche a dare la giusta autorevolezza alla politica.
Il problema di educare è serio, non sono le chiacchiere che fanno l’educazione ma la testimonianza quindi servono esponenti politici, magistrati, giornalisti in gradi di mettersi in discussione e testimoniare con i limiti del proprio operato cosa è bene e cosa è male.
Com’è fatto il taccuino di un giornalista esploratore? Cosa ti ha segnato delle esperienze nelle realtà calde e belliche?
In generale i taccuini ti rappresentano, ti aiutano a fissare i ricordi e a mettere insieme i tasselli dei fatti. Anche se scritti in maniera scombinata magicamente i pensieri disordinati prendono corpo, cosa che non accade con gli iPad o iPhone.
Il taccuino cambia odore e colore in base al viaggio che stai facendo. In guerra è scarabocchiato perché scritto da una mano tremolante e frettolosa, il prima possibile “te la devi dare a gambe”. Quello che ha attraversato il Kosovo, la Somalia e la Cambogia trasuda indubbiamente di preoccupazione, paura. E’ pregno delle lacrime di chi scrive e della disperazione di chi incontri. Nelle zone di crisi hai sempre 8 occhi e 8 orecchie, ma nonostante tutto nei paesi in guerra incontri tantissima speranza, gente che ti sorride.
Senti un contrasto forte, ma sai che nel bene o nel male c’è qualcuno che combatte per qualcosa di buono. Poi ci sono le guerre politiche e quelle che puzzano dello scontro tra religioni.
Se vai in Australia e corri solo il pericolo di essere “preso a cazzotti da un canguro” il taccuino indubbiamente puzza meno.
Cechov diceva: “Ad un buon giornalista servono scarpe buone e un quaderno d’appunti“. Il taccuino è il tuo compagno fedele, è la metafora del giornalismo
In viaggio mi è capitato di rischiare anche molto per recuperarne istintivamente uno volato via dalle mie mani a causa di un’esplosione vicina.
D’altronde “Scrivere è viaggiare senza la seccatura dei bagagli”?
Di solito quando si torna a casa il bagaglio dovrebbe essere sempre pieno, ma nel mio caso non è così perché mi rubano sempre qualcosa.
Ti definiresti un giornalista “Sociale”?
Non lo so, gli americani legano il giornalista sociale ai social network, gli italiani lo legano ai racconti della socialità. Io credo che un giornalista o è sociale o non è giornalista. Anche chi si occupa di cronaca rosa comunque racconta della vita di persone e fatti che hanno ripercussioni sulla vita di persone. Cambia il modo di esprimerlo, il lessico, non esiste un giornalismo di serie A e B.
Quali erano i principi del giornalista di allora, cosa c’è di nuovo nel cronista di oggi?
Credo che i principi non siamo mai cambiati, ce ne sono alcuni individuali e altri di redazione.
Il Washington Post ha come motto di redazione: “I nostri giornalisti hanno molti amici, il nostri giornale nessuno”. Di fronte a un miliziano morente che sai ha terrorizzato centinaio di persone tu come ti poni come essere umano? In queste situazioni se sei improntato al rispetto dell’altro comunque questo ti aiuterà a raccontare meglio anche l’aguzzino, se sei educato al disprezzo dell’altro non riuscirai mai a raccontarne fino in fondo le ragioni. Tutto questo non l’ho imparato nelle redazioni o nella scuola di giornalismo della BBC ma a Scordia. Ascoltare la controparte è pericoloso ma può servire come nel mio caso anche a salvarti la pelle. In Cambogia grazie ad una rete di “conoscenze” siamo stati avvisati in tempo di strani movimenti, siamo partiti un giorno prima mentre un fotografo rimasto sul posto è stato ucciso.
Tre parole per descrivere la tua Scordia? Tradita, mal giudicata, imprevedibile…
Scordia è un paese che ha delle enormi potenzialità ma che forse come affermava Sciascia soffre dell’invisibilità dell’evidente. Non c’è nessun comune in Sicilia che ha la concentrazione d’intelligenze sparse nel mondo come il nostro, in una realtà così composita e complicata si sono generate così tante menti eccelse che dovrebbero anche loro essere un modello giovanile, non solo la musica la tv e i giornali.
MARTINA PISASALE