ELEZIONI EUROPEE 2014. Europa, quale Europa vogliamo?
0L’importanza strategica delle Europee. Il 25 maggio voteremo per il rinnovo del Parlamento Europeo contribuendo a eleggere 73 dei 750 europarlamentari totali appartenenti ai 28 paesi dell’UE. Inutile dire che forse per la prima volta dal lontano 1979 (prime elezioni a suffragio universale) si percepisce l’importanza strategica di questa tipologia elettorale. Il rinnovo del Parlamento Europeo in passato è sempre stato percepito come un’elezione di “serie B”. Per diverse motivazioni, sia dal lato degli elettori sia da quello dei partiti, la tornata ha rivestito erroneamente importanza marginale. Si vuole per il peso specifico degli elettori e la loro capacità di poter incidere sull’elezione di un Eurodeputato vista l’esiguità del numero di seggi in rapporto agli elettori. Questo un tema strettamente legato alle maxi 5 circoscrizioni elettorali (Nord est, nord ovest, centro, sud e insulare). E’ chiaro che la mobilitazione per le elezioni di un Sindaco, di un deputato, di un presidente Provincia è stata vissuta diversamente. Dal canto loro anche gli stessi partiti hanno spesso pensato di snobbare l’evento, candidando e magari facendo eleggere starlet televisive, attori, sportivi, politici emeriti ad honorem che forse non avevano proprio voglia. In generale si era forse invasa l’idea che Strasburgo e l’Europarlamento fossero luoghi di vacanza dorata senza essere troppo dietro ai riflettori. Tornate elettorali erroneamente snobbate perché con il passare degli anni da quel lontano 1979 con il susseguirsi dei Trattati, i margini e i perimetri di competenza dell’UE si sono largamente ampliati restringendosi contemporaneamente gli spazi della legislazione nazionale. Legislazione nazionale che è sempre più spesso frutto di recepimento e armonizzazione Europea. Scelte e politiche economiche degli stati membri a tutti i livelli di governo (centrale, intermedio e locali) diretta conseguenza degli accordi presi sotto il cielo di Berlino. E’ importante determinare un Sindaco e il consigliere comunale, ma quante scelte che pone in essere un’Amministrazione comunale sono spesso il frutto di decisioni che vengono da lontano! In questo senso penso al patto di stabilità. E’ certamente importante determinare i deputati della propria circoscrizione, ma se pensiamo e ci atteniamo all’agricoltura la PAC (Politica Agraria Europea) si scrive in Europa. La scelta su come allocare le risorse dei fondi strutturali si decide largamente in Europa, non sui territori locali. Appare anche chiaro che questo sarà un test fondamentale non solo per le elezioni fine a se stesse (rinnovo Europarlamento) ma anche un test dalla valenza politica generale.
Non è solo colpa dell’Europa. Credo che si sbagli analisi quando ci si limita solo alla facile demagogia. L’errore è anche maggiore se questa tipologia di analisi parziale viene fatta da chi al governo di questo paese c’è stato per lungo tempo. Se c’è la crisi e le cose non vanno per il verso giusto, sarebbe ingiusto e parziale addossare tutte le responsabilità all’Europa e all’Euro. Gli sprechi e la corruzione nel nostro paese, l’alta evasione in Italia non sono certo responsabilità dell’Europa o se volete della Germania. I condoni e gli scudi fiscali non sono stati prescritti da Bruxelles. Una classe politica spesso non all’altezza, i carrozzoni del bel paese Italico poco hanno a che fare con Strasburgo. Le Comunità montane in zone pianeggianti o nella migliore delle ipotesi in collina non erano previste nei Trattati Europei. L’anomalo rapporto tra alti dirigenti e dipendenti totali nella P.A. non erano certo un parametro Europeo imposto da Bruxelles. In questo rapporto anomalo, appare “spaventoso” quello della Regione Siciliana, terra del 61 a 0. Tutto questo e molto altro ci è stato regalato dai nostri politici nazionali e regionali senza alcuna prescrizione dall’Europa. Sono problemi che abbiamo all’interno dei nostri confini nazionali e non sono guasti causati dall’Europa. Un paese dove è mancato un disegno di politica industriale per 15 anni, non è ascrivibile alla Francia o alla Germania. I grumi, i monopoli, le mancate liberalizzazioni non sono imputabili al cielo di Berlino. L’elenco addebitabile alla bandiera tricolore potrebbe continuare, ma credo di avere reso l’idea. Detto questo e fatta questa doverosa premessa a scanso di facile qualunquismo, dobbiamo però dire quale Europa si è costruita negli ultimi 20 anni. Insomma non sono per niente tutte rose e fiori a vantaggio dei popoli europei. Nei punti seguenti si focalizzano le spine.
Quale Europa i cittadini europei vogliono? Mai come in questa tornata elettorale le elezioni appaiono, a torto o a ragione, come una sorta di referendum pro o contro l’Europa. Forse sarebbe più corretto dire tra questa Europa costruita dalle tecnocrazie e l’Europa dei popoli. I padri fondatori dell’Europa avevano disegnato un percorso che avrebbe dovuto portare agli stati Uniti d’Europa. Si è arrivati a questa tappa finale parecchio ambiziosa? Pare proprio di no se ci atteniamo ai fatti. In politica estera se prendiamo a riferimento la crisi araba del 2012, l’Europa che avrebbe dovuto parlare con una sola voce forte e chiara in nome di tutti, suonava con più spartiti. Mi pare che sulla crisi Ucraina stia avvenendo la stessa cosa. In materia di difesa esiste una voce univoca, ma proviene dall’alleanza atlantica della NATO. Se l’Europa è quella degli scambi interculturali, delle diversità come ricchezza, dei programmi Erasmus o progetti Comenius, è un’Europa da amare. Ma questa Europa cosi come disegnata, rischia di essere odiata dalla stragrande maggioranza dei cittadini Europei. Cittadini che vedono l’Europa soggetto attuatore di vincoli e freni allo sviluppo. Il problema non è tra l’essere europeisti o antieuropeisti, ma tra modelli diversi di Europa e aggiungerei soprattutto modelli differenti di Eurozona. Per la prima volta vi è un’indicazione chiara dei candidati presidenti alla commissione Europea (il governo Europeo). C’è un’idea che ciascuno dei 5/6 candidati principali hanno di Europa e di alternative alle politiche attuate fino ad oggi. In misura molto più chiara di quanto avvenuto in passato quando spesso il governo dell’Europa era frutto di accordi post-elezioni in una sorta di “governo della grande coalizione europea”. Il cambiamento e l’inversione di marcia saranno tanto più marcati quanto maggiore sarà a livello europeo il peso numerico di chi vuole un’Europa diversa.
L’Unione Europea e l’Eurozona. Anche tra gli addetti ai lavori (politici in campagna elettorale), coscientemente o meno s’ingenera sovente confusione tra Unione Europea (UE) e Unione economica monetaria (UEM). La prima a 28 paesi è quella per la quale saremo chiamati a votare per il rinnovo dell’Europarlamento con la conseguente determinazione indiretta della Commissione. La seconda è cosa più ristretta e riguarda per l’appunto solo 18 dei paesi membri che sono andati oltre e hanno aderito all’Euro, la cosiddetta Eurozona (18 paesi membri su 28). Il Regno Unito di Gran Bretagna, la Svezia e altri paesi (molti dell’est) fanno parte dell’UE ma non della zona Euro. Questa sottile differenza che può apparire marginale giacché i paesi che contano sono in entrambi gli organismi, non è un mero discorso di lana caprina. Giova, infatti, ricordare che molti dei vincoli, dei parametri di bilancio, delle politiche dell’austerità derivano non tanto dal governo dell’UE, quanto dall’Eurogruppo e dalla BCE. Per rimanere a tema quando si usa la tipica espressione ……”Bisogna sbattere i pugni sul tavolo in Europa” ………evidentemente i pugni andrebbero sbattuti sul tavolo dell’Eurogruppo. In tal senso a partire da una Banca centrale europea che se necessario (attacchi speculativi dei mercati sui debiti sovrani), possa fare lo stesso mestiere della Federal Reserve americana. Forse non si sono costruiti gli Stati Uniti d’Europa, ma in cambio tutti i paesi principali (fatta eccezione della Gran Bretagna), hanno la stessa moneta pur avendo economie profondamente diverse. Basti pensare al caso estremo tra l’economia tedesca e quella greca. Che l’Europa monetaria così com’è stata negli ultimi 12 anni non va bene non lo dice una sparuta minoranza. Tutte le forze politiche, tutte le proposte alternative che si presentano alle elezioni, ci dicono che l’Europa cosi come costruita è da rivedere. Naturalmente con intensità e spessore diverso, ma anche i difensori estremi dell’Europeismo e dell’austerity di ultima maniera hanno cambiato rotta. Anche i grandi sostenitori delle agende Monti non si fanno più sentire o comunque hanno corretto di parecchio il tiro.
L’Eurogruppo e l’austerity. Come ho già scritto in un precedente articolo a capodanno, l’obiettivo di sistemare i conti pubblici è lodevole. E’ doveroso per il futuro del paese e delle nuove generazioni. Non è questo in discussione, l’obiettivo è pienamente condivisibile. Il problema è semmai il metodo, i tempi e la cura seguita. La domanda che ci dobbiamo sempre porre è la seguente. Le politiche messe in campo hanno tenuto in ordine i conti pubblici dei paesi membri? I dati empirici economici danno risposta negativa. In Italia dal 2010 a oggi in 4 anni di austerity il debito pubblico è salito sia in termini assoluti sia in percentuale (rapporto debito pubblico /PIL). Il PIL è diminuito del 4,8% nel solo biennio 2012-2013 dando luogo a una decrescita infelice. Il mantenimento del parametro 3% (deficit /PIL) raggiunto con manovre di nuove tasse ha depresso ulteriormente il PIL, più del fisiologico di quanto già dovuto alla congiuntura. Il tutto con la conseguente diminuzione del gettito dello Stato in una spirale negativa. Il tasso di disoccupazione (il più drammatico di questi indici) è ritoccato trimestralmente verso l’alto ed è arrivato al 12,7% (quella giovanile al 42,7%). Non è in discussione la necessità di guarire la malattia, ma semmai la terapia seguita. Lo stesso Prodi ha più volte affermato che i parametri di austerity furono pensati e scritti quando la previsione di crescita dei paesi dell’Eurozona fosse sopra il 2%, dunque in un periodo pre-crisi finanziaria 2008. Del resto il debito pubblico accumulato in periodi di prosperità non può essere certo ridotto in anni di forte recessione. Con queste terapie attuate l’economia reale è indietreggiata e i conti pubblici sono peggiorati. Nel novembre 2011 lo “spread” era 575 punti, mentre oggi è sceso miracolosamente a 170 punti base. Se questo indice seguisse i dati dell’economia reale e l’andamento del debito pubblico, a inizio 2014 avremmo dovuto avere uno spread a 700. Ma è risaputo che lo “spread” non segue l’economia reale, segue l’umore e le aspettative dei mercati. Ma quale mercati? Tutti mi pare dicono più Europa e meno mercati. Naturalmente occorre vedere chi canta lo spartito, difficile se questo venga pronunciato da chi ha sostenuto l’ortodossia dell’austerity o ancora chi ha votato il “fiscal compact” a sua insaputa senza neanche accorgersene. La pattuglia è ben rappresentata.
FRANCESCO GHERARDI