Gesualdo Tramontana nel ricordo del giornalista Nello Scavo.
0Se n’è andato in punta di piedi, in silenzio, accompagnato dai familiari e da pochi intimi, da quei compagni socialisti ancora in vita che non hanno dimenticato un politico che ha segnato un’epoca della vita scordiense. Gesualdo Tramontana ha vissuto una lunga parte della sua vita prima da consigliere e poi da sindaco diventando così una persona popolare, conosciuta da tutti. A pochi giorni dalla sua morte abbiamo chiesto al giornalista Nello Scavo di darci una testimonianza su Tramontana, lui che per molti anni ha raccontato Scordia attraverso le pagine del quotidiano La Sicilia.
Gesualdo Tramontana ebbe tra le molte disavventure quella di avermi tra i piedi quale cronista in erba agli inizi degli anni ’90. A me non spiaceva affatto gettarmi nella mischia. Avevo vent’anni, un’età che non porta quiete né saggezza. Non perdevo occasione per punzecchiarlo. Lui era l’autorità, e io giocavo a fare il cronista d’assalto. Non mi importava chi fossero, né quale colore avessero le casacche degli amministratori locali. A me interessava fargli le pulci.
Quasi ogni pomeriggio andavo a studiarmi le delibere di giunta. Ogni tanto “Mastro don Gesualdo” – come lo chiamavo non senza impertinenza – affacciava dall’ufficio al primo piano del Municipio e mi guardava con la faccia rassegnata di chi non sapeva cosa aspettarsi dalle cronache del giorno dopo. Quante volte abbiamo discusso, ma mai litigato. Era impossibile bisticciare con lui. Discutere animatamente si, rompere un’amicizia, mai.
Scrivevo per “La Sicilia” quasi quotidianamente. E a quel tempo non era difficile trovare le notizie. Dai consigli comunali in seduta fiume ai morti ammazzati, la materia prima dell’informazione non mancava mai. Una volta Tramontana si informò sulla mia paga. Scoprì che venivo remunerato con 10mila lire a pezzo (cioè al giorno). Ci rimase malissimo: “E tu rischi di farti sparare per 10mila lire?”.
Anni prima era toccato a lui essere ridotto in fin di vita. Ma quella volta non tutti percepirono il senso di un attacco rivolto non solo a un uomo e a un imprenditore, ma al primo cittadino. Fu una sfida lanciata da Cosa nostra alla democrazia e alla città. Da allora molti altri fatti accaddero, preceduti dalla sottovalutazione del pestaggio subito da Tramontana. Se si può impunemente sequestrare e massacrare un sindaco, allora si può tentare di sottomettere un’intera comunità. Ed è più o meno così che sarebbe finita se Tramontana stesso non avesse gridato più volte la rabbia e la delusione per essere stato lasciato pressoché da solo, colpito dai sospetti e dalla maldicenza, che sono poi sono l’alibi dei superbi e dei vigliacchi, e a quell’epoca non mancavano né gli uni né gli altri.
Tempo dopo, in occasione di una controversa inchiesta giudiziaria, egli trovò il modo di farmi fare bella figura, confermando di che pasta era fatto. Nel gennaio del 1993 – non avevo ancora spento le 21 candeline – una dozzina di amministratori locali finirono nel mirino di una indagine conclusasi nel nulla. Si sentiva già la spinta orgiastica di Mani Pulite, ma oggi possiamo dire che quegli arresti potevano e dovevano essere evitati. Non tanto e non solo perché le accuse evaporarono durante il processo, ma perché l’onta di una inutile (in quel caso) carcerazione preventiva poteva essere risparmiata. Tramontana era tra loro. E anch’io.
Venni aspramente criticato per ciò che ne scrissi. E devo dire che non tutte le lamentele erano fuori bersaglio. Ma c’è un retroscena rimasto noto a pochissimi e che oggi merita di essere rivelato. Quella mattina con uno stratagemma riuscii a farmi portare fin dentro alla caserma della Guardia di Finanza nella quale erano stati accompagnati i destinatari dell’indagine. A quell’epoca i telefoni cellulari erano un’invenzione per pochi e ricchi fortunati. Approfittando di un errore di comunicazione tra le forze di polizia finii anch’io, per così dire, arrestato. Riuscii così ad annotare le angosce, la rabbia, la grande dignità della maggior parte di quelli che allora, con termine che per fortuna oggi i giornali non usano quasi più, si chiamavano “inquisiti”. Uno scoop memorabile di cui già pregustavo il successo e magari la ribalta nazionale. Fino a quando, in fondo al corridoio di quella che era stata una lugubre fortezza medievale, Gesualdo Tramontana si scrollò di spalla il cappotto scuro e cominciò a gridare in direzione di un colonnello delle Fiamme Gialle. “Ma lui che c’entra?”, disse indicando me. “Il ragazzo non c’entra niente. Rilasciatelo subito”, intimò con quell’autorevolezza di chi resta sindaco per sempre. E mentre i militari cercavano di capire cosa stesse accadendo, lui mi rilasciò un’intervista. Non era mai accaduto che un giornalista riuscisse a intervistare dei politici presi sotto momentanea custodia. Il colonnello, quando scoprì che il più giovane dei presenti era un cronista e non un rampante consigliere comunale, divenne più gialloverde delle mostrine che indossava. Grazie a Tramontana venni, per così dire, scarcerato. Non ne fui contento, perché in fondo speravo di restare “dentro” ancora per qualche ora così da raccogliere altre voci e dettagli. Ma fu meglio così. Uscii e scrissi tutto. E tutti si arrabbiarono. Le fonti giudiziarie perché ci fecero la figura di chi neanche s’accorge di avere “messo dentro” un giornalista facendosi soffiare notizie preziose. E i colleghi di Tramontana, perché si sentirono trattati come criminali comuni. Non avevano tutti i torti. Il clima giustizialista dell’epoca era tracimato fin dentro alle pagine dei giornali, che grazie a quell’atmosfera da resa dei conti giudiziaria macinavano copie.
Gesualdo Tramontana non mi mandò mai a quel paese e anzi, una volta rilasciato, chiamò il direttore per chiedere di essere intervistato. Ma voleva che il pezzo lo scrivessi io. Lo feci. E cominciai con le solite domande graffianti. Ma lui aveva l’aria stanca, come se ne avesse abbastanza. Chiusi nell’abitacolo della sua auto, mi mostrò le cicatrici procurategli cinque anni prima dai picchiatori della mafia. Mi confidò con gli occhi gonfi e i pugni chiusi, quale dolore fisico provasse ancora e quanto fossero pesanti, e perenni, i postumi dell’aggressione. Ma non era quello a fargli male all’anima, quanto il non essere riconosciuto dalle istituzioni e dalla comunità come vittima di mafia. Mi aveva confidato i suoi timori – che non voleva venissero resi pubblici per non dare soddisfazione né ai mafiosi né agli avversari politici -, ma parlò con trasporto della sua insospettabile fede in Sant’Antonio.