Le tante crisi occupazionali. Da dove nascono e da dove originano
2Da molti anni è entrata nella lingua Italiana l’espressione tipica di “Autunno caldo” per indicare i problemi di carattere economico-sindacale che si presentano nei mesi di settembre e ottobre alla ripresa, dopo le nostre calde estati. La vicenda della Compir a Scordia da l’input per parlare in generale delle realtà produttive Italiane, e della situazione economica in cui versa il nostro paese. Tante crisi occupazionali, stabilimenti che chiudono o che comunque diminuiscono i loro livelli produttivi (con risvolti occupazionali), sembrano bollettini di guerra sempre più frequenti nella nostra penisola. Il caso Compir è pressoché sovrapponibile alle tante Compir dei distretti industriali, non solo del nord-est. Cambia il nome dell’azienda, muta il luogo teatro della crisi ma c’è sempre lo stesso problema. Allora dobbiamo porci alcune domande su quante politiche a favore del mondo della produzione sono state varate. In tema di ricchezza credo che il vero spartiacque non sia tra ricchi e poveri, ma tra una buona ricchezza produttiva che paga le tasse (troppe) e dall’altra una rendita parassitaria che porta i soldi all’estero. Rendita che spesso è stata prima blindata e poi scudata o condonata con un 5%. Del resto il vero spartiacque non è tra impresa e lavoratori, ma tra imprenditori che creano valore da una parte e dall’altra finanzieri e capitalisti-speculatori, spesso senza scrupoli, che si limitano a raccogliere i frutti dei mercati non regolati. Uno Stato, gli Stati uniti d’Europa, l’Unione Europea non devono criminalizzare i mercati finanziari e i capitali, tuttavia è indubbio che il pubblico debba inevitabilmente fare il tifo per la prima ricchezza (quella produttiva). Deve, attraverso tutte le linee di azione di politica economica, porre in essere tutti gli strumenti atti a premiare la ricchezza che produce e redistribuisce valore e contestualmente penalizzare la rendita finanziaria. Almeno 2 gli ordini di motivi legati tra loro:
– Aspetto sociale. La ricchezza produttiva crea valore economico al quale partecipano diversi protagonisti e conseguentemente viene redistribuita tra più soggetti economici. A che serve fare crescere la torta globale di un paese se poi ad accaparrarsela sono solo pochi eletti, che magari consumano all’estero o peggio esportano nei paradisi fiscali.
– Aspetto squisitamente economico. Allargandosi la platea dei soggetti che partecipano al processo produttivo, si allarga la platea dei percettori di reddito che pagano le tasse che diventano consumatori facendo girare l’economia, seguendo l’espressione tipica. Se aumenta la disponibilità di reddito dei soggetti che risiedono, aumenta anche il gettito.
Questi postulati di base sono stati mantenuti nel corso degli anni dall’operatore pubblico? I governi che si sono succeduti nel tempo, hanno veramente avuto un trattamento di favore nei confronti dell’economia reale che produce e redistribuisce ricchezza rispetto alla rendita finanziaria? A questa domanda, la politica a parole ha sempre manifestato l’intenzione di attuare provvedimenti per la crescita e lo sviluppo. In questa breve e non esaustiva riflessione di analisi delle politiche pubbliche, nei fatti concreti, credo che sia accaduto il contrario.
La supremazia dei mercati finanziari sull’economia reale. Andiamo con ordine, la crisi nasce alla fine del 2007 negli Stati Uniti per via di una bolla speculativa dei subprime. Con un effetto domino che devasta i mercati finanziari di tutto il mondo, si propaga nell’arco di un anno all’intera economia mondiale. Nessuno pensa che ci sia stato un complotto ma appare ai più, un dato di fatto che la crisi sia stata prima scaricata sui bilanci pubblici e conseguentemente traslata sull’economia reale (Imprese e lavoratori), attraverso manovre di aggiustamenti dei conti pubblici. Manovre resesi necessarie per pagare sullo stock di debito pubblico, interessi a tassi sempre più alti ai mercati finanziari. Quegli stessi mercati che avevano provocato la crisi. L’economia reale ha pagato e tributa ancora oggi alla crisi, un prezzo superiore rispetto alle sue reali responsabilità. I mercati finanziari nati per fare incontrare domanda e offerta di capitali, più che luogo dove ottimizzare l’allocazione di capitali sono divenuti essi stessi protagonisti. La politica a livello globale e la tecnocrazia europea (Commissione UE, BCE, Banca Mondiale e FMI) si è dimostrata sterile. A fronte di una debolezza dei poteri regolatori dei mercati tipica del “lassaire fare”, i mercati hanno trovato terreno fertile su come espandersi e prosperare. Giova ricordare, mercati finanziari che dovrebbero essere funzionali e strumentali all’economia reale ma che sono divenuti essi stessi protagonisti, ribaltando lo schema iniziale. Un esempio classico, il “Derivato” conosciuto come titolo speculativo per eccellenza, in realtà era nato per essere strumentale e servire l’economia reale. I derivati erano lo strumento nato per dare certezza di prezzo all’imprenditore che vendeva prodotti all’estero, mettendolo al riparo dalle eventuali oscillazioni future dei rapporti di cambio. Inutile dire che l’attività speculativa ha trasformato la loro “mission originaria”.
Quanto è importante la ricchezza produttiva in Italia? Negli ultimi anni stanno venendo al pettine tutti i nodi non affrontati almeno negli ultimi 20 anni. Per troppo tempo non c’è stata una politica industriale degna di questo nome. La politica fiscale ha spesso penalizzato la ricchezza produttiva, già nel 1997 con l’istituzione dell’IRAP ed è proseguita con altre misure che hanno penalizzato il mondo produttivo, mentre ci si è mantenuti lontano dalla rendita finanziaria, nei confronti della quale si è sempre mantenuto un atteggiamento parecchio generoso. Da anni le imprese sono strozzate dal “credit crunch”, ma sembra che solo nel 2013 improvvisamente ci si è svegliati e si è scoperto che la Pubblica Amministrazione onora il suo debito dopo anni e che di solo credito si muore. Con la mano destra si diceva che si voleva aiutare la crescita, lo sviluppo e l’occupazione, con la mano sinistra si triplicava il carico fiscale delle aziende e degli esercenti, in una parola si aumenta il carico fiscale dell’economia reale. Per questioni di spazio ci limiteremo temporalmente a ricostruire empiricamente il periodo che va dal 2008 al 2012. Parimenti la riflessione sarà limitata alla linea di azione della politica fiscale, tralasciando la politica industriale e le politiche del credito.
La politica fiscale e l’IMU sui capannoni, negozi e botteghe. Nei tre mesi antecedenti le elezioni politiche e soprattutto dopo, la politica Italiana si è “fossilizzata” sull’IMU prima casa, come se la madre di tutte le tassazioni e dei problemi fosse l’IMU sulle prime abitazioni. Ancora oggi l’agenda politica in materia di tasse è dominata dal dogma “IMU prima casa”. Quando l’agenda politica è sgombra dai problemi giudiziari di un solo uomo, il problema su cui la grande coalizione s’interroga, è il seguente: Eliminazione totale IMU prima casa o semplicemente aumento della platea dei soggetti che sarebbero esentati (aumento della detrazione fino a 500 euro). Diversi studi mostrano che l’innalzamento della detrazione da 200 a 500 euro porterebbe comunque la platea dei soggetti esenti titolari di prima casa al 65 %. Di fatto due Italiani su tre si troverebbe comunque a non pagare l’IMU prima casa Nel frattempo che la politica e il governo di grande alleanza trovano un’intesa sul dogma, il paese va in macerie. Si parla poco di cuneo fiscale, si parla poco di alleggerire l’IRAP, si parla poco soprattutto di IMU sui capannoni, su negozi e botteghe, di deducibilità della stessa imposta, ed in generale di diminuzione del peso sui beni strumentali all’attività d’impresa. Per dimostrare che la politica si è fossilizzata sul nulla giova anche ricordare che l’IMU prima casa vale 4 miliardi di euro su un totale di gettito di oltre 24 miliardi. La discussione ha dunque rilevanza del tutto marginale. Se la grandezza macro dei numeri dice poco ai più, riporto l’esempio di un ipotetico cittadino. il Signor Bianchi Mario nel 2012 ha pagato in totale 1.200 euro di IMU, ha versato come prima casa circa 70 euro. Accanto alla seconda e terza abitazione (magari data ad uso gratuito ai figli) c’era soprattutto il terreno agricolo (agrumeto), un tempo fonte di reddito, oggi una tara nell’accezione completa. Detto che l’incidenza percentuale IMU prima casa è marginale (70 euro su 1.200), il Signor Bianchi (Italiano medio) sarebbe comunque esentato dall’imposta sulla prima casa in tutte le ipotesi di riforma allo studio. In conclusione, “IMU prima casa SI o NO” è un mero discorso di lana caprina.
La Patrimoniale sulle realtà produttive. Quando si sposta la tassazione dai redditi al patrimonio il primo problema su cui ci s’imbatte, è che si finisce sempre per tassare il solo patrimonio Immobiliare (terreni e fabbricati), mentre per ovvie ragioni il patrimonio mobiliare tende a essere non colpito. La ragione è presto spiegata, il classico “mattone” non può mettere le ruote e scappare verso i paradisi fiscali a differenza degli strumenti finanziari. Nulla di precostituito contro le patrimoniali, ma per come sono varate in Italia, finiscono per colpire solo una parte della ricchezza (quella immobiliare). E in questo, comunque si possa pensare, esiste una profonda iniquità. A questa stortura di ordine tecnico-obiettiva, l’IMU varata dai professori ne aggiunge altra. Nei paesi anglosassoni quando si vara un’imposta patrimoniale, si distingue in primis tra i beni strumentale all’esercizio dell’impresa (capannone, stabilimento/opificio), il fabbricato strumentale all’esercizio dell’attività commerciale (il negozio o il laboratorio dell’artigiano) da un lato, e dall’altro i bene che non sono strumentali all’attività produttiva. I primi non sono considerati patrimoni indici di ricchezza fine a se stessa. Come tali non sono da assoggettare a Imposta sulla ricchezza o comunque soggetti a imposizione ridotta o marginale. Sono, infatti, beni che contribuiscono indirettamente a creare valore. Sono beni “serventi” e “strumenti di un’attività economica”. Il laboratorio dell’artigiano il negozio del commerciante o il capannone dell’impresa sono attrezzi di lavoro, che danno lavoro. I secondi non essendo inseriti all’interno di un contesto produttivo sono considerati patrimoni e come tali da assoggettare a imposizione. L’errore fondamentale è proprio in questo, non avere distinto tra la ricchezza produttiva che contribuisce a mantenere in piede questo paese e la ricchezza speculativa che rischia poco ed è remunerata tanto. A completare il quadro dell’iniquità, contro le realtà produttive si aggiunga che il carico fiscale è ancora maggiore se consideriamo l’indeducibilità dell’imposta. Nel novembre 2011 si era partiti dall’assunto che bisognava spostare la tassazione dai redditi (variabile di flusso) ai patrimoni e la ricchezza accumulata (variabile di stock), purtroppo alla fine dobbiamo costatare che siamo arrivati solo a tassare il mattone, e cosa ancora più grave anche quello produttivo e strumentale. Con questo modus operandi tasseremo la “cantarella” e la “manicola” dell’artigiano edile. Continuando in questa direzione forse tasseremo la falce e il martello? In fondo, sono anch’essi beni e cose possedute indice di ricchezza! Intanto mentre il paese brucia, la politica e il governo di grande coalizione discutono se togliere l’IMU prima casa al 100% degli Italiani o al 70%. L’argomento è certamente di vitale importanza per il paese.
FRANCESCO GHERARDI per Scordia.info